La parola più appropriata per esprimere il concetto di “spiritualità indiana” sarebbe il termine di origine indoeuropea “dharma”. Esso deriva dalla radice “dhṛ-“, la quale significa “sostenere, mantenere in essere”. Racchiude in sé moltissimi significati, ed il concetto di religione tipico dell’occidente è solamente uno di essi in quanto il dharma è una legge eterna che regola e sostiene il mondo.
Il significato di questa parola è molto simile a quello che noi chiamiamo “legge della natura”, ossia una specie di norma eterna o di ordine invisibile che sorregge sia il cosmo, sia l’esistenza degli esseri umani e di ogni forma di vita. Il dharma è l’essenza dell’universo in quanto si basa sulla Verità (satya). Anzi dharma e satya sono la stessa cosa, infatti chi cerca e segue il proprio dharma è anche chiamato “ricercatore della verità” e lo scopo della sua ricerca è quello di riuscire ad entrare in contatto e mantenere un certa “armonia col dharma di tutte le cose”.
I principi generali su cui esso si basa sono: la non-violenza (e quindi il rispetto per ogni forma di vita), il dono legato all’assenza di paura (abhaya-dāna) ed una coerenza tra le azioni che quotidianamente si svolgono ed i propri principi. Esso può essere visto sia in termini unitari, ovvero che ogni cosa è legata e regolata da questa norma comune a cui fare riferimento; sia in termini individuali, in quanto ogni uomo ha il proprio dharma da seguire.
Grazie a questa differenza nell’unità si riesce a creare un equilibrio che permette di mantenere una stabilità nel mondo, senza la possibilità di cadere in errori tipici dell’ adharma, ossia tutto ciò che è in contrasto con la legge del dharma e che entra in gioco quando esso non viene più rispettato per debolezze ed errori umani. Per questo motivo ogni uomo fa propria questa legge e su di esso basa i suoi comportamenti e doveri.
Per definire il proprio dharma si fa riferimento a determinati aspetti tipici della vita ti ogni individuo:
– a seconda della classe sociale in cui si nasce ed in cui si rimane per la durata di ogni esistenza (varṇa-dharma),
– a seconda della fase della vita in cui ci si trova (āśrama-dharma).
Esse sono suddivisibili in quattro principali, a cui corrisponde ovviamente un dharma diverso: studente religioso, padre di famiglia, ritiro che comporta un isolamento dalla vita della società e rinuncia, per conseguire la liberazione dal ciclo delle rinascite (mokṣa).
– si possono raggruppare i due sopra menzionati in un unico dharma (varṇāśrama-dharma).
– a seconda delle proprie caratteristiche e qualità (guṇa-dharma).
Vi è poi un insieme di virtù morali comuni a tuttà l’umanità (sādhāraṇa-dharma) ed a queste virtù si somma il complesso di doveri obbligatori (nitya-dharma – ossia tutti i doveri che devono essere compiuti ), opzionali (kāmya-dharma – ossia quei doveri legati a qualche obiettivo particolare) e occasionali (naimittika-dharma – ossia quelli legati a determinate circostanze).
Ogni uomo nella sua vita deve saper raggiungere ed armonizzare mete specifiche, le quali sono suddivisibili in tre principali: Il dharma (questa norma che è superiore rispetto alle altre due), il kāma(la realizzazione dei propri desideri) e l’ artha (il benessere ed il successo materiale).
Ecco perché è preferibile parlare di “spiritualità”, in quanto essa è una norma che trova riscontro in tutte le parti della vita di ogni individuo, mentre il termine “religione induista” rispecchia un concetto più razionalizzato, schematizzato ed occidentalizzato di intendere la religione.
Le opere indiane di maggior importanza che si occupano di promulgare l’adempimento ed il rispetto del proprio dharma sono essenzialmente due. La prima è la gigantesca epopea del Mahābhārata. Essa è stata redatta in sanscrito tra il IV secolo a.C. ed il IV secolo d.C. e narra di una grande guerra tra due stirpi di cugini (Kaurava e Pāṇḍava) per la contesa di un territorio. Kṛṣṇa,discesa terrena (avatāra) di Viṣṇu ed appartenente alla famiglia Pāṇḍava, deve intervenire per assicurare l’adempimento del dharma. Qui si entra nella parte centrale dell’opera, la Bhagavad-gītā (il canto di Bhagavat), composta intorno al II secolo a. C. . In questo punto dell’opera il principe Arjuna, colui che ha scelto di avere al suo fianco Kṛṣṇa, è in forte conflitto interiore. Egli non sa se adempiere al suo dovere, ossia compiere l’azione ed entrare in guerra, oppure rinunciare. La rinuncia gli porterebbe il raggiungimento del proprio Sé interiore, un abbandono totale a Dio e quindi un sicuro dono di redenzione e salvezza.
Kṛṣṇa gli offre una risposta illuminante, che gli farà poi vincere la guerra: l’azione è necessaria ed obbligatoria e non bisogna mai venir meno al dovere che come uomini abbiamo (dharma). Ma per compiere un’azione giusta, essa deve essere effettuata senza desideri o ambizioni personali, compiuta esclusivamente per il bene del mondo. Essa non è semplice azione, ma è soprattutto amore per Dio e pura Conoscenza. Affidando a Dio le proprie azioni l’individuo indentificherà quella parte divina che risiede nel proprio cuore, con il Divino Universale (Bráhman) ed essa è la strada verso la liberazione. Questo è l’insegnamento divino che Kṛṣṇa ha donato, il quale è stato diffuso con il nome di Yoga (yuj – “unire”).
La seconda opera che sottolinea l’importanza di tale norma è il Rāmāyaṇa. Opera redatta intorno al II secolo d.C., racconta la storia di Rāma, altro avatāra di Viṣṇu, che dedica la sua vita al rispetto ed al ristabilimento del dharma. Entrambe le opere sono di fondamentale importanza, ma mentre il fine ultimo del Mahābhārata è legato all’ottenimento del mokṣa tramite il rispetto del dharma, il Rāmāyaṇa si dedica esclusivamente all’ adempimento della giustizia nel mondo terreno.
Tratto da:
S. Piano, Sanatana Dharma – Un incontro con l’ induismo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1996
Tara Rosa Eleonora Percesepe, La Trasformazione della Coscienza, Libraio Editore, Milano 2019